Archivi per November 30, 1999

Poco tempo fa, al divertentissimo evento “Desall Juice“, svolto nella magnifica sede italiana di H-Farm, ho conosciuto il team di Kentstrapper, start-up italiana pioniera nella produzione di stampanti 3D Open Source. Kentstrapper nasce nel 2011 dall’esperienza del progetto Open Source Rep Rap, frutto della collaborazione di più persone che hanno condiviso in rete le loro idee e la loro esperienza in merito alla stampa 3D. Kentstrapper è nato proprio da questo progetto, iniziando prima come team di ricerca e sviluppo per la prototipazione rapida, per poi trasformarsi in una vera e propria start-up che produce stampanti 3D.

1. La prima domanda è una curiosità personale: perché avete scelto Kentstrapper come nome?

Il nome deriva dall’unione del soprannome dato a Lorenzo durante il periodo liceale, “Kent” da Cantini (il nostro cognome), e di una storpiatura del nome dei modelli di stampanti 3D derivate dal progetto reprap ovvero “Repstrap”

2. Quale credete che sia la formula del vostro successo?

Probabilmente la passione che ci mettiamo e l’esperienza accumulata, senza per questo mostrarci presuntuosi, bensì disposti ad
accettare critiche e consigli per migliorarci continuamente.

3. Business e Open Source possono coesistere? Come?

Noi crediamo che la risposta sia affermativa. Abbiamo tra l’altro esempi eccellenti di imprese italiane che hanno creduto in tale filosofia e che ce l’hanno fatta. Anche noi siamo sotenitori dell’Open Source poichè aggiungiamo del “nostro” creando un valore aggiunto, fornendo assistenza, ad esempio. Inoltre la ricerca procede più velocemente potendo condividere e scambiare esperienze e consigli su come affrontare le problematiche che si incontrano giornalmente.

4. Che mezzi avete per combattere la concorrenza, visto che non potete proteggervi con dei brevetti?

Come anticipato nella risposta precedente, il non ricorrere a brevetti non è per noi uno svantaggio, in quanto andiamo a sviluppare dei
prodotti in cui la differenza è dettata dall’assistenza, dall’expertise e dai servizi accessori che forniamo ai clienti.

5. Avete mai pensato di costruire una vostra stampante che non sia Open Source? Perché?

Al momento non crediamo nella necessità di ricorrere ad un closed source poichè la concorrenza ci sarà sempre e ciò che fà la
differenza non è tanto l’hardware o il software, quanto il servizio.

6. Il caso del browser Firefox ha dimostrato che un software Open Source può prevalere sui suoi antagonisti closed source proprio grazie all’entusiasmo e alla dedizione della comunità dei propri sviluppatori. Pensate che anche per voi valga lo stesso?

Sicuramente il seguire una politica Open Source permette di ricevere il supporto di una comunità che coopera nello sviluppare nuove soluzioni ed upgrade, nonchè di risolvere in tempi molto più rapidi eventuali problemi che si possono presentare, grazie all’esperienza di qualcuno che ci è già passato e che vuole diffondere il suo punto di vista.

7. Sembra che nonostante alcune proposte allettanti abbiate rifiutato le offerte di alcuni investitori. Perché avete preso questa decisione?

Occorre fare una precisazione, ciò che non volevamo era avere a che fare con dei finanziatori che vedessero il progetto come mero strumento per guadagnare, per poi venderne le quote al miglior offerente e arrecare così un eventuale danno alla società. Qualora un finanziatore decidesse di entrare in società con noi e partecipare al progetto in maniera attiva non avremmo problemi a valutare la proposta.

8. Come immaginate Kentstrapper nei prossimi 5 anni? Dove vorreste arrivare?

L’obiettivo è quello di industrializzare il processo di produzione, nonchè di sfornare nuovi modelli maggiormente performanti.
Speriamo di poterci espandere per poter offrire posti di lavoro a giovani makers e poter contribuire allo sviluppo di altri portando sempre
più questa tecnologia dentro scuole, università e laboratori.

Un grazie e un “in bocca al lupo” al team di Kentstrapper, un vero esempio di quanto la passione e la dedizione dei giovani imprenditori possa creare qualcosa di grande.

A presto,

Massimiliano

L’Open Hardware pare essere la “Next Big Thing” del prossimo decennio. Dopo la rivoluzione di Linux e dell’Open Source degli anni ’90, alcuni sostengono già che il futuro dello sviluppo dell’hardware passerà anche da iniziative derivate da imprese o enti che metteranno a disposizione i disegni e i progetti delle proprie invenzioni, in modo che chiunque possa utilizzarli per riprodurre o modificare liberamente gli oggetti in questione. Secondo i sostenitori del movimento, questo tipo di filosofia può contribuire ad abbattere i costi di ricerca sviluppo e velocizzare i processi di innovazione delle imprese.

La recente notizia dell’entrata in scena di Novena, una piattaforma per un computer portatile con hardware Open Source, sta però facendo risorgere gli interrogativi riguardo alla sostenibilità di progetti simili o eventualmente più ambiziosi.

Come avevo già scritto in un precedente post, uno dei migliori esempi della sostenibilità dei progetti di Open Hardware è Arduino, una “schedina” nata da un esperimento tutto Italiano, ma che ha già fatto scuola a livello mondiale.

In questo post invece affronterò l’argomento in maniera più ampia, cercando di capire se e come un progetto che prevede l’adozione di hardware Open Source può essere sostenuto da uno o più modelli di business.

Un’idea folle?

Inizio col citare una frase di Massimo Banzi (uno dei creatori di Arduino), il quale, in una vecchia intervista per la rivista Wired affermava: “se ci pensate, rendere disponibili i progetti dei vostri prodotti è come invitare i vostri concorrenti ad eliminarvi“.

A onor del vero, ci sono diverse criticità insite nello sviluppo di prodotti con harware Open Source:

  • Qualsiasi concorrente può facilmente copiare il prodotto e distribuirlo ad un costo inferiore
  • Produrre prototipi o piccoli lotti, come avviene spesso per prodotti di questo genere, è più costoso che svilupparli, brevettarli ed avviare successivamente una produzione di massa, perché difficilmente si beneficia di economie di scala.
  • Se il progetto viene sviluppato con il contributo di una comunità di “makers”, c’è il rischio che il progetto si trasformi in un “giochino per geeks”, perdendo l’opportunità di svilupparsi in direzione del “mercato di massa”. Le comunità che supportano questi progetti sono infatti composte solitamente da individui con competenze tecniche di gran lunga superiori alla media, che difficilmente presentano esigenze di utilizzo simili alla maggioranza delle persone. Una persona comune, quando compra uno smartphone vuole che sia bello e che funzioni sempre, mentre un supporter di OpenMoko, ad esempio, vuole invece che il suo smartphone sia completamente modificabile, perché per lui, trascorrere ore a fare nuove prove è un divertimento ed è pronto a sobbarcarsi il rischio di guasti e malfunzionamenti.
  • Il progetto deve presentare un certo appeal per una nicchia di potenziali appassionati sufficientemente numerosa: come Linux era una soluzione al problema del costoso software proprietario, Arduino ha rappresentato una soluzione per coloro che cercavano un microcontroller duttile ed economico. È infatti difficile o impossibile che un numero sufficiente di persone dedichi tempo prezioso ad un progetto senza ottenere dei benefici che vadano al di là di quelli psicologici e sociali.
  • Alcuni produttori sono riluttanti a produrre hardware con specifiche Open Source, anche “conto terzi”. Questo succede perché produrre componenti i cui progetti sono liberamente disponibili può essere rivelatore di preziosi segreti industriali.

Anche nel 1991 però, quando Linus Torvalds iniziò il suo progetto per un sistema operativo Open Source, nessuno credeva che dei volontari che lavoravano part-time potessero creare qualcosa di rivoluzionario. Al contrario, Linux fu di fatto tra i maggiori responsabili dell’esplosione della Web economy e diede inizio, oltretutto, alla filosofia che ora chiamiamo “Open Source Way”. Ad oggi, Linux costituisce le fondamenta di Android, sistema che viene utilizzato da milioni di smartphones e tablet ed è installato sui server delle più importanti aziende del mondo. Niente male per un progetto nato da una piccola comunità di programmatori!

C’è però una differenza fondamentale tra software ed hardware Open Source: il software può essere ormai prodotto e diffuso ad un costo prossimo a zero, mentre l’hardware non può liberarsi dai costi di produzione. Senza un brevetto, inoltre, è difficile o impossibile ottenere profitti consistenti dalla vendita diretta di prodotti dotati di hardware Open Source.

In ogni caso, per quanto l’idea di sviluppare e produrre hardware Open Source possa essere folle, Novena ed Arduino non sono gli unici progetti di questo tipo. In Italia e nel mondo non mancano gli esempi di altri produttori di hardware che mettono a disposizione i progetti delle proprie creazioni alla collettività. Già durante la hacker-conference del 2010 fu mostrata una breve presentazione in cui si nominavano 13 aziende che superavano il milione di dollari di ricavi grazie a modelli di business fondati su prodotti dotati di hardware Open Source.

Open source hardware $1m and beyond – foo camp east 2010 from adafruit industries on Vimeo.

Tra i progetti che citavo prima ad esempio c’è anche OpenMoko, uno smartphone con hardware e sistema operativo Open Source, che proprio dall’apertura dei propri progetti può beneficiare, per il suo sviluppo, del contributo e dei consigli di un fedele gruppo di “makers”, grazie ai quali sono state introdotte novità importanti ed è stata addirittura ampliata la gamma dei prodotti.

I modelli di business

Come riescono ad essere sostenibili i progetti citati sopra? Il classico modello fondato sulle donazioni non è certamente sufficiente per sostenere lo sviluppo di progetti su larga scala. Nel corso degli anni, i creativi e gli inventori che hanno iniziato a disegnare prodotti basati sulla filosofia Open hanno trovato diverse modalità per finanziare le proprie iniziative. I modelli di business che verranno descritti di seguito sono chiaramente molto diversi da quelli classici, perché il produttore, in questo caso, non può porre un mark-up giustificato dalla presenza di un brevetto.

I modelli di business che sono stati individuati sono:

  • Vendita del prodotto: in questo caso, il team che sviluppa il prodotto e rende pubblici i relativi progetti mette i consumatori di fronte a una triplice scelta. Comprare l’originale, comprare i cloni prodotti dai concorrenti o costruire il prodotto autonomamente. Le leve per rendere l’acquisto del proprio prodotto la soluzione preferibile sono spesso il fatto che esso sia di maggiore qualità rispetto alla concorrenza, abbia un’assistenza e una documentazione migliori, sia sviluppato in maniera continuativa anche nella parte software o che la sua costruzione DIY (Do it Yourself) risulti complessa e costosa. Inoltre, i produttori di hardware Open Source possono utilizzare la propria community come una leva di marketing per fidelizzare la clientela e sviluppare il passaparola. Il fatto che vi siano altri fabbricanti che producono dispositivi simili non rappresenta necessariamente un problema. Infatti, se gli inventori del prodotto originale riescono, grazie anche al contributo della propria community, ad introdurre continue innovazioni incrementali o a espandere velocemente la gamma, i prodotti venduti dalla concorrenza contribuiranno ad accrescere la notorietà della tecnologia in questione, ma il punto di riferimento per coloro che vorranno i dispositivi migliori e più aggiornati sarà sempre il team responsabile dell’invenzione.
  • Utilizzare un marchio registrato: il produttore registra un marchio, per il quale richiede il pagamento dei diritti ogni volta che viene utilizzato. È un sistema già sperimentato da diversi progetti, tra i quali Arduino.
  • Crowdfunding: si tratta di uno strumento che, come abbiamo visto, è molto potente e può essere sfruttato in maniera sapiente come parte di strategie di marketing virale. Come scrivevo in un precedente post, finanziare progetti altamente creativi tramite crowdfunding è un’opzione che può catalizzare l’attenzione di tante persone, portando alla ribalta anche progetti che prima erano rivolti a delle nicchie.
  • Vendita di prodotti complementari coperti da brevetto
  • Vendita di prodotti brevettati ma basati su componenti con hardware Open Source
  • Vendita di software proprietario per lo sviluppo dei dispositivi con hardware Open Source
  • Vendita di manuali, libri o guide, utili per utilizzare al meglio il prodotto
  • Vendita di servizi legati all’utilizzo del prodotto: formazione e consulenza

Ci sono poi benefici intrinseci nell’adozione di meccanismi Open Surce per lo sviluppo dei prodotti, che si sostanziano solitamente in un abbattimento dei costi di ricerca e sviluppo (spalmati in tutto o in parte su coloro che decidono di contribuire con le proprie ore-lavoro).

È poi interessante notare come lo sviluppo di prodotti dotati di hardware Open Source non si leghi solamente a dei modelli di business veri e propri, ma che possa fungere anche da “business driver”, ovvero da “catalizzatore per il business”, per creare altri prodotti o progetti che portino gli inventori ad avere fonti di guadagno. Ciò è particolarmente interessante, perché i progetti nati con una filosofia Open spesso sono legati a comunità di creazione che possono fungere da volano per portare alla ribalta prodotti che, se sviluppati secondo metodologie convenzionali, difficilmente otterrebbero l’attenzione del mercato.

Interessante è anche il parere di coloro che sostengono che i prodotti basati su hardware Open Source non potranno mai essere sostenuti da veri modelli di business, ma che potranno fungere principalmente da “catalizzatori per il business”.

Ovviamente è impossibile sintetizzare in pieno il dibattito a riguardo in questo post, ma la mia speranza è quella di aver sintetizzato tutte le tematiche principali riguardanti la sostenibilità dei modelli di business legati a prodotti dotati di hardware Open Source.

Per chi desiderasse approfondire l’argomento ho raccolto qui sotto alcuni link utili, da cui ho peraltro attinto per scrivere l’articolo.

Business models for Open Hardware: http://www.openp2pdesign.org/2011/open-design/business-models-for-open-hardware/
Is Open Source Hardware IT’s Next Big Thing?: http://www.informationweek.com/global-cio/interviews/is-open-source-hardware-its-next-big-thi/240000260
A business model for open source hardware: http://www.longtail.com/the_long_tail/2009/01/a-business-mode.html
Open sesame: http://www.economist.com/node/11482589

A presto,

Massimiliano

Le storie che riguardano nuove idee di giovani imprenditori italiani sono quelle che scrivo sempre con più orgoglio ed entusiasmo. Nell’articolo di oggi parlerò di “Fattelo!“, un progetto di impresa basato su due dei modelli di business collaborativi più importanti del momento: i meccanismi Open Source e il Crowdfunding. Fattelo! è la traduzione inglese di “Do-It-Yourself!”, ovvero, “fattelo da solo!”, e non è altro che un progetto d’impresa basato sul concetto di “design Open Source”, in cui i designer, oltre a poter vendere il prodotto, mettono a disposizione i progetti affinchè essi possano essere costantemente migliorati.

Il primo prodotto nato da questo progetto è una lampada (chiamata 01LAMP), costruita con un semplice cartone della pizza, un cavo e dei led, che si può costruire autonomamente o “comprare” tramite una donazione su Eppela. Grazie a questa si contribuirà inoltre a sostenere il progetto d’impresa concepito dai quattro giovani designer italiani, ideatori del progetto. Si chiamano Mattia, Andrea, Antonio, Federico ed hanno tutti meno di 30 anni, tanto talento e un passato di studio e lavoro nel mondo del design e della progettazione.

Il modello di business che i ragazzi vogliono sfruttare è particolarmente interessante, perché, come tutti i progetti del suo genere, fa leva sulla partecipazione dei contributor e dei fan al progetto stesso. Fattelo! ha però qualche caratteristica che lo rende radicalmente innovativo, perché Il meccanismo che prevede la partecipazione è basato su di una strategia di marketing virale molto ingegnosa. Per scaricare i disegni e le istruzioni necessari per costruire i progetti ci si deve infatti “loggare” con le credenziali di Twitter o Facebook.

In questo modo, sia che si compri il prodotto finito sia che si scarichino i disegni per costruirsi il prodotto autonomamente, si contribuisce alla crescita del progetto. Nel primo modo infatti lo si sostiene “economicamente”, nel secondo invece si contribuisce diffondendo le creazioni ed i progetti dei designer presso la propria rete sociale. Il meccanismo è, in sostanza, un sistema per sostenere un’efficace strategia di comunicazione virale.

I ragazzi hanno dimostrato di essere, oltre che ottimi designer, anche abilissimi strateghi. Nel video di presentazione, infatti, annunciano che sia se il progetto di finanziamento su Eppela abbia successo sia che non ne abbia, scriveranno un report contenente la descrizione della loro esperienza e dei consigli per altri ragazzi che vorranno finanziare i propri progetti tramite crowdfunding. Anche in questo caso i giovani designer cercano di ispirare la propria audience esortandola a contribuire tramite le donazioni su Eppela, in modo che la storia che il report descriva un grande successo e non un fallimento.

Termino complimentandomi con i ragazzi per il loro approccio innovativo all’imprenditoria: non solo hanno ben sfruttato un modello di business innovativo, ma hanno anche saputo pianificare una strategia di marketing basata su tre elementi molto interessanti:

  • Ispirazione: la campagna di comunicazione è incentrata sull’appello ad aiutare questi giovani designer a coronare il loro sogno di diventare imprenditori (argomento che, soprattutto in questi mesi risulta particolarmente “sensibile”).
  • Viralità: grazie al meccanismo “scarica e condividi” i ragazzi possono contare su una comunicazione innovativa, efficace e a costo zero.
  • Partecipazione: il progetto non avrà successo se non otterrà la partecipazione di un buon numero di persone, sia che esse comprino il prodotto sia che lo condividano. L’obiettivo del team di Fattelo! è infatti quello di costruire il proprio progetto e crescere attraverso la partecipazione della propria fan base. In questo contesto, “il crowd” è la leva più importante sulla quale si regge il progetto.

Devo ammettere che sono sicuro che Fattelo! riscuoterà il successo che merita su Eppela, ma, anche se malauguratamente non dovesse, i ragazzi avranno avuto la possibilità di far apprezzare il proprio ingegno e la propria creatività e, non da ultimo, di scrivere un report che sarà utile ai molti altri che verranno dopo di loro. In ogni caso auguro loro un in bocca al lupo!

A presto,

Massimiliano

Tutti i marketers lo sanno, stiamo vivendo una fase in cui il marketing si sta trasformando. Oggigiorno molte strategie si basano sul coinvolgimento dei consumatori a vari livelli, e non più sulla semplice trasmissione di un messaggio attraverso gli strumenti classici. Le ragioni di questo cambiamento sono ben note, e possono essere ricondotte alle mutate abitudini di consumo delle persone e alle nuove possibilità di interazione offerte dalla tecnologia. Non parlerò ulteriormente di queste tematiche, di cui potete trovare i dovuti approfondimenti leggendo il saggio “Marketing non convenzionale“, presente sul blog.

Tra gli studiosi sta sempre più prendendo piede una filosofia chiamata “Open Marketing”, ovvero un approccio per affrontare al meglio i mercati 2.0. Se, come è risaputo, i mercati sono conversazioni, alcuni studiosi affermano che il marketing possa trovare utili ispirazioni dal movimento Open Source, storicamente pervaso da concetti come collaborazione, dialogo e confronto. Le comunità legate a progetti Open Source sono stati infatti i primi casi in cui si è evidenziata la potenza dei meccanismi partecipativi.
Ecco di seguito qualche spunto su cui riflettere qualora vogliate considerare di adottare un “approccio Open” nelle vostre strategie di marketing:

  1. Andate al di là di un semplice coinvolgimento: oggi i consumatori sono interessati ad una interazione con i brand proprio come i programmatori di software Open sono interessati a contribuire alla scrittura del codice dei software. In poche parole, i consumatori vogliono contribuire allo sviluppo dei brand che amano in maniera sostanziale. Vogliono essere al centro dello sviluppo dei nuovi profotti, vogliono testare i prototipi ecc. Dare a questi soggetti una possibilità di partecipazione significa avere dei potenti alleati.
  2. Create una comunità e sfruttatela come un volano per crescere: dopo aver coinvolto i fan più sfegatati, si potrebbe dar loro un certo margine di autonomia per costruire un proprio seguito. Così facendo si creerebbe una comunità attiva e vitale, in grado di portare creatività e valore aggiunto al vostro brand.
  3. Ascoltate prima di parlare: dovrebbe essere una regola d’oro del marketing, ma troppo spesso le aziende si preoccupano di parlare prima ancora di aver capito cosa il mondo pensa di loro. Anche in questo caso un’utile ispirazione può giungere dai meccanismi Open Source, in cui la comunicazione tra le persone coinvolte in specifici progetti è continua e supportata da strumenti ben definiti (newsgroup, mailing lists, forum ecc.). Per le aziende iniziare ad ascoltare è semplice: basta monitorare i social media ed il Web facendo delle semplici ricerche su Google. Per esigenze più avanzate, inoltre, esistono strumenti specifici per monitorare il “sentiment” del mercato.
  4. Siate “umani”: i comunicati stampa e le pubbliche relazioni, soprattutto se gestite “alla vecchia maniera”, possono suonare impersonali alle orecchie dei consumatori. La voce del top management potrebbe dare un tono più “umano” e reale, sottolineando che l’azienda è un’entità composta da persone e non un soggetto astratto.
  5. Siate comprensivi e professionali: l’interazione e il coinvolgimento possono presentare dei rischi per l’impresa. Esporsi significa essere vulnerabili a critiche, fenomeni di boicottaggio o diffamazione. Queste problematiche vanno però trattate con calma, moderazione e comprensione, pena il rischio di essere trascinati in una spirali controproducente. Rispondere alle critiche con messaggi istituzionali è sconsigliabile; soprattutto in casi gravi è meglio che i responsabili della customer care si firmino e agiscano in maniera repentina ma professionale a problematiche simili.
  6. Rompete gli schemi: le maggiori barriere all’adozione di una “filosofia open” sono mentali. Aprendo la propria mente si possono aprire più facilmente anche le barriere aziendali. Il mondo esterno, infondo, non è così pericoloso come sembra, soprattutto se si è consci di come si possono cogliere le opportunità che ha da offrire.

Pare che dopo il Marketing Relazionale ci si stia muovendo verso l’Open Marketing, che è un approccio ancora del tutto relegato allo status di “filosofia”, perché non gode tuttora di una base teorica, forse anche per la velocità con cui queste tecniche stanno rivoluzionando il modo di concepire il marketing.

Fonte: What is Open Marketing?

A presto,

Massimiliano

Negli ultimi anni sono state spese molte parole riguardo alle varie modalità grazie alle quali si può velocizzare lo sviluppo dei prodotti e, di conseguenza, il time-to-market (il tempo che intercorre tra l’ideazione del bene/servizio e la sua commercializzazione). Nel settore dell’Information and Communication Technology, ad esempio, il tempismo risulta essere sovente un fattore chiave per il successo di un prodotto. Tra gli obiettivi concernenti la riduzione del time-to-market, però, non ci sono solo motivazioni legate al marketing, ma anche la riduzione dei costi di ricerca e sviluppo, che spesso passa per l’adozione di approcci molto diversi dal classico modello di product development.

Se il modello classico prevede una serie di fasi rigide e consecutive, altamente formalizzate, gli approcci più innovativi possono prevedere processi più rapidi e meno formalizzati, che spesso determinano un sostanziale risparmio di tempo e denaro. Detto questo, ci sono comunque settori e prodotti in cui tali procedure possono assumere una maggiore o minore rilevanza. Gli esempi più interessanti riguardanti processi innovativi di product development possono essere osservati, come si diceva in precedenza, nel campo dell’ICT.

Sopra: l’approccio classico per il product development

Il caso “O2 Connect”

Un caso interessante, che ho notato pochi giorni fa, è quello del software VoIP “O2 Connect” sviluppato da O2, provider di servizi legati alla telefonia ed Internet operante nel Regno Unito ed in Irlanda. L’azienda era conscia del fatto che una larga fetta dei propri utenti ricorresse a servizi VoIP (come Skype o Viber) per comunicare con i propri smartphones utilizzando reti wi-fi, non solo per risparmiare, ma anche per ovviare ad una copertura non capillare della rete. Capendo le potenzialità di questo mercato e volendo sfruttare il vantaggio di “legare” facilmente il numero di telefono delle proprie SIM ad un servizio VoIP, O2 voleva sviluppare una applicazione propria.

Per entrare velocemente in un mercato già presidiato da un big player come Microsoft (con Skype), O2 doveva sviluppare il proprio software nel minor tempo possibile, non potendo affrontare tempi e costi di uno sviluppo svolto internamente alla propria funzione R&S. Come racconta Shomila Malik, in un intervista concessa al blog “Rapid Innovation in Digital Time“, per lo sviluppo di servizi innovativi O2 si avvale di “O2 Enterprise Lab” (cui Shomila è a capo), un entità che collabora con il management dell’azienda madre tramite un rapporto non gerarchio, ma simile a quello che intercorre tra una start-up e un venture capitalist.

Al laboratorio, in sostanza, viene lasciata molta autonomia. La struttura è composta da 40 persone, per la maggior parte sviluppatori, che si interfacciano direttamente con una commissione che ha lo scopo di decidere quali idee sviluppare e come allocare le risorse per i vari progetti in cantiere. In O2 Enterprise Lab, inoltre, la libertà di proporre nuovi progetti è assoluta: i dipendenti sono incoraggiati a proporre i propri progetti tramite delle “pitch sessions” periodiche e a condividere il proprio lavoro con i colleghi tramite software specifici. In poche parole, nel laboratorio regna una cultura dove l’openness e la collaborazione sono considerati una risorsa fondamentale per stimolare la creatività degli sviluppatori.

Nello sviluppo di “O2 Connect”, avvenuto in collaborazione con Voxygen (società con una forte expertise nel campo delle applicazioni VoIP) è stato fatto ampio uso di componenti Open, come le cosiddette OpenAPIs e (quando possibile) componenti Open Source. “Convincere il management che la scelta delle componenti Open Source era la migliore non è stato facile”, racconta Shomila, ma l’adozione di tali soluzioni ha permesso una miglior collaborazione tra Voxygen e O2 Enterprise Labs, nonché la possibilità di un testing diffuso di tali componenti presso le comunità di sviluppatori. O2 connect è stato infine distribuito in beta pubblica, ciò significa che tutti coloro che volevano, potevano contribuire al suo miglioramento utilizzando la versione sperimentale del software. Gli utenti erano in grado di “dire la loro” tramite una piattaforma dedicata, chiamata “getsatisfaction”, grazie alla quale O2 Enterprise Labs ha raccolto il feedback degli utenti prima del lancio della versione finale.

http://nbry.files.wordpress.com/2012/08/openness.png

Sopra: l’approccio adottato da O2 Enterprise Labs per sviluppare “O2 Connect”

I vantaggi nell’utilizzo delle OpenAPIs

Concentrandosi nuovamente sull’adozione di componenti Open, si può notare come il loro utilizzo offra diversi vantaggi. In questo caso, si possono notare diversi vantaggi derivanti dall’utilizzo delle OpenAPIs.

Per capire come l’utilizzo delle OpenAPIs (o API pubbliche) abbia influito nel velocizzare il processo di sviluppo del prodotto, dev’essere prima chiaro cosa sono le API. Le API (Application Program Interface) sono uno strumento che permette di accedere ai contenuti che un sistema offre**, espandendone le funzionalità. Astraendo il concetto, le API sono per i software ciò che lo sterzo ed i pedali sono per le auto: attraverso le API, tutti, meccanici e non, possono guidare le auto. Attraverso le API pubbliche però, i meccanici più esperti possono modificare le componenti dell’auto, potenziandola e migliorandola, mettendo i propri miglioramenti a disposizione di tutti.

L’utilizzo di API pubbliche, in estrema sintesi, comporta i seguenti vantaggi*:

  • Essere presenti su più piattaforme (Facebook App, App Store, Android Market, ecc.) in tempi rapidi e senza dover riprogettare il sistema da zero. Questo ha un impatto positivo sui costi di sviluppo, e le varie applicazioni possono essere sviluppate in più fasi, visto che esse sono totalmente indipendenti dal cuore del sistema;
  • Essere pronti per le piattaforme emergenti, in quanto è possibile avere versioni pronte in tempi molto brevi;
  • Creare oggetti sociali, come widget e applicazioni web, in modo da far crescere esponenzialmente il social reach;
  • Trovare nuovi business models grazie ad utilizzi particolari del proprio sistema;
  • Avere una community di sviluppatori che utilizzano e testano il sistema continuamente, come se fossero un vero e proprio reparto R&D, gratis;
  • Essere pronti per l’integrazione dei propri servizi in altre infrastrutture e sistemi connessi. Gli altri utilizzeranno le API e diffonderanno il servizio.

Chi volesse approfondire il tema dei vantaggi/svantaggi legati all’utilizzo delle OpenAPIs, può leggere l’interessante articolo su ZDnet.com a riguardo.

L’utilizzo di un “approccio Open” a 360 gradi ha consentito al laboratorio di O2 di sviluppare l’applicazione “O2 connect” in circa 4 mesi dalla sua ideazione. Si tratta di un tempo estremamente ridotto, in cui sono stati determinanti sia le soluzioni tecniche adottate sia la collaborazione tra i diversi organi aziendali e tra i diversi stakeholders coinvolti nel progetto. Il caso del software “O2 connect” è interessante, perché questo approccio all’innovazione e allo sviluppo di nuovi prodotti, al di là delle soluzioni tecniche adottate da O2, è una modalità che sta interessando non più solamente le start-up, ma sempre più anche le aziende di grandi dimensioni.

Per coloro che volessero approfondire l’argomento, allego link dell’intervista originale a Shomila Malik: Intervista Shomila Malik per “Rapid Innovation in Digital Time”.

A presto,

Massimiliano

*Fonte: http://www.digitallycultured.it/post/open-api-un-vantaggio-strategico-per-brand-e-startup/

**Fonte:http://www.simonecarletti.it/blog/2006/09/che-cosa-sono-le-api-application-programming-interface/

Il caso della console Ouya sta interessando da mesi diverse categorie di appassionati, diventando una storia di interesse per i cultori dei sistemi Open Source, del Crowdsourcing, del Crowdfunding e del Marketing, per non citare tutti gli appassionati dei gadget tecnologici, quei “pionieri” che per le aziende ormai rappresentano una delle risorse principali per penetrare i propri mercati obiettivo.

La console Ouya, se ancora non ne avete sentito parlare, è un piccolo cubo che utilizza come sistema operativo Android e che principalmente svolge la funzione di console per la TV, proprio come le classiche Playstation e Nintendo. La console può però svolgere anche altre funzioni, come riprodurre contenuti multimediali e connettersi con WebTV e presenta, inoltre, una connettività e caratteristiche hardware di ottimo livello. Il team dietro alla console ha saputo concentrare tutta questa potenza in una piccola scatola dal design e dal prezzo accattivante. Per ottenere una Ouya, infatti, si dovranno spendere solamente 99 dollari. Un prezzo modesto, soprattutto considerando il costo limitato dei tanti giochi presenti sulla piattaforma Android.

Grande successo o possibile fallimento?

Le caratteristiche tecnico-fisiche del prodotto non sono le uniche che rendono Ouya un caso interessante. Ouya si è guadagnata la sua fama grazie alla campagna-record di crowdfunding svolta sulla ben nota piattaforma Kickstarter. Con più di 8,5 milioni di dollari raccolti, entra di diritto tra i progetti di maggior successo finanziati tramite crowdfunding, tanto che la stampa specializzata si è persino chiesta se questa enorme quantità di finanziamenti raccolti non si possa trasformare in un boomerang, vista la grande quantitadà di ordini che il team dietro Ouya ha ricevuto grazie a Kickstarter. In effetti, anche la rivista Forbes, in un recente articolo, ha rimarcato le innumerevoli criticità che il team dovrà affrontare per consegnare a tutti i backers una Ouya nelle modalità e nei tempi promessi. Il team di Ouya, dal canto suo, ha sempre risposto con chiarezza ai critici e agli scettici, comunicando sempre in maniera puntuale le fasi di sviluppo del progetto. Come ben ricordato da Julie Uhrman, CEO di Ouya, il Crowdfunding è un meccanismo basato sulla fiducia, e Ouya, posizionandosi come un prodotto radicalmente innovativo (quindi ad elevata complessità e rischio percepito per il consumatore), non può che avere come obiettivo quello di costruire, in prima istanza, una forte brand trust. Gli errori non sono consentiti quindi, ma aldilà dei protagonisti, anche tutti coloro che si interessano di Crowdfunding stanno ora osservando il caso, aspettando di vedere se Ouya rappresenterà l’ennesimo successo o il primo grande fallimento di Kickstarter.

Quando Marketing fa rima con Hacking

Si era già potuto notare, nell’articolo riguardante il lancio di Pebble Watch, quanto le strategie di marketing non convenzionale giochino un ruolo di rilievo nel lancio di prodotti mediante approcci quali Crowdfunding e Crowdsourcing. Ouya è interessante anche perché non solo utilizza un sistema Open Source, ma anche perché permetterà, anzi, incoraggerà i propri utenti più esperti a smontare la console per modificarla o potenziarla. L’hacking della console non inficerà infatti la garanzia, che rimarrà intatta nonostante gli interventi dei più “smanettoni”. Ouya, nella sua versione finale, sarà dotata inoltre di un SDK (Software Developer Kit), che darà la possibilità agli sviluppatori amatoriali di creare dei giochi in maniera relativamente semplice. Mosse che differenziano decisamente Ouya dalla concorrenza, da sempre nascosta dietro brevetti e sistemi anti-hacking. La scelta è tesa a colpire, in primis, quella fascia critica di utilizzatori (pionieri ed early adopters) che saranno la testa di ponte per la diffusione della console presso la maggioranza anticipatrice e quella ritardataria. Tutte queste caratteristiche, radicalmente innovative per una console, instilleranno un DNA virale nel prodotto, favorendo la creazione di communities di appassionati ed esperti. Come sostengono gli studiosi di marketing non convenzionale, questa è una strategia volta a creare non solo legami con il brand, ma anche tra utenti e soprattutto tra i makers, gli hackers e gli sviluppatori amatoriali di giochi per console che decideranno di acquistare Ouya. In effetti, la scelta di favorire l’hacking pare perfetta per questo tipo di console, specialmente perché rivolta ad un target che da sempre ha dimostrato una grande fantasia e creatività, nonché una precisa volontà di condividere le proprie creazioni. Un’altra decisione tesa ad una veloce penetrazione del mercato è che i giochi, anche quelli a pagamento, saranno disponibili nella modalità free-to-play. Ciò permetterà ai giocatori di provare qualsiasi gioco prima di comprarlo, oppure di scaricarlo e di decidere di comprare espansioni, armi o altri add-on, sulla falsariga dei giochi scaricabili su Android e iOS. Anche questa caratteristica, comunque, rappresenta un inedito per una console “da tavolo”.

La triplice sfida

Ouya attualmente si trova di fronte a diverse sfide. La prima riguarda il concetto stesso di console da televisione. In un mondo che si sta muovendo sempre più verso l’utilizzo (anche videoludico) di periferiche portatili (tablets e smartphones in primis), alcuni addetti ai lavori ritengono che lanciare una console di questo tipo sul mercato sia una scelta azzardata. A mio avviso l’obiezione è legittima, ma sono certo che nei piani del CEO di Ouya non ci sarà solo una console, ma probabilmente una linea di prodotti pensati sulla falsariga della console originaria. Non da ultimo, altri dubbi riguardano la capacità della start-up californiana di penetrare un mercato già maturo e presidiato prepotentemente da colossi come Sony e Nintendo. Per alcuni, a conti fatti, 99 dollari per console sono un prezzo che non consentirà margini tali da sostenere il prodotto in un mercato così difficile e che, allo stesso modo, i margini dei giochi che saranno scaricabili dallo store saranno troppo ridotti per permettere ad Ouya di creare grattacapi ai big players. Infine, anche produttori come Samsung (forti della propria expertise sulla piattaforma Android) potrebbero inserirsi nel mercato con una console tutta loro, con un prezzo inferiore ad Ouya o con caratteristiche hardware migliori.

Nonostante tutto, la console Ouya rimane un caso interessante non solo per la sua natura “Open”, non solo perché il suo management sta adottando strategie di marketing particolarmente creative, ma anche perché ci troviamo di fronte ad un prodotto che ha la possibilità di dimostrare quanto il Crowdfunding, condito da adeguate strategie di marketing, possa essere uno strumento sufficientemente potente da sfidare multinazionali che presidiano da anni un mercato maturo. A questo proposito sarà interessante seguire le prossime mosse del team di Ouya, soprattutto riguardo ai tempi e ai modi in cui riusciranno a soddisfare la domanda iniziale e sostenere una successiva penetrazione del mercato. Se Ouya riuscirà ad adempiere ai suoi impegni e stimolare velocemente la creazione di comunità di appassionati intorno al prodotto, facendo contestualmente crescere il proprio brand, avrà buone possibilità di sfidare (e forse diventare essa stessa) un big player nel settore del gaming.

Per chi volesse approfondire l’argomento, segnalo due interessanti articoli di Forbes a riguardo:

Articolo 1: With Ouya’s Kickstarter Funded, What Should Its ‘Investors’ Expect?

Articolo 2: This Is Ouya’s Fatal Flaw

A presto,

Massimiliano

Secondo i detrattori dei modelli Open Source è impossibile o proibitivo costruire dei modelli di business sostenibili attorno a progetti “Open”. Eppure, grazie agli esempi forniti da alcune imprese, è possibile effettuare una classificazione dei vari modelli di business che possono sostenere questa tipologia di progetti. In realtà, difendere il proprio vantaggio competitivo, per un azienda che sviluppi prodotti “a sorgente aperta”, non è affatto facile. Negli anni però, la creatività di imprenditori coraggiosi e capaci ha dimostrato che c’è ancora spazio per aziende “Open” in grado di rendere questi meccanismi la fonte di un vantaggio competitivo sostenibile. Anzi, sempre più frequentemente, l’adozione di una filosofia Open è la ragione del successo di alcune start-up di nuova generazione.

Ecco una lista di modelli di business fondati su modelli Open Source:

  1. Vendita di supporto/assistenza tecnica/consulenza: è stato già visto quanto questo modello abbia fatto la fortuna di alcuni colossi come Red Hat (arrivata da poco al traguardo di un miliardo di dollari di ricavi). La vendita di assistenza e consulenza tecnica è il modello di business più usuale per le aziende che sviluppano le proprie imprese grazie a prodotti Open Source. In questa lista però non figurano solo colossi, ma anche molte piccole/medie aziende che vendono la loro expertise e customizzano software Open. È il caso, ad esempio, di CRM Village, già affrontato nel post dedicato a vTiger CRM. La condizione che può frenare lo sviluppo di una start-up che sfrutti questo modello risiede nella possibilità che qualche big player la acquisisca precocemente, o peggio investa nella fornitura di un servizio analogo. Nonostante tutto, una start-up che riesca a sviluppare una forte expertise riguardo a software di nicchia ha ancora buone possibilità di riuscire a sostenere un business fondato su queste basi.
  2. Vendita di hardware con software Open Source pre-installato: è il caso di alcune start-up, che utilizzano come fonte di revenue la vendita di hardware dotato di software Open Source. Tra queste si può citare Vyatta, produttrice di routers. Questo modello è particolarmente rischioso perché i concorrenti possono facilmente installare il software su periferiche simili. Qualora qualche big player entri in scena, le economie di scala messe in campo renderebbero presto proibitivo il proseguo dell’attività da parte di un’azienda neonata.
  3. Mix tra componenti proprietari e Open Source: È una soluzione scelta da sempre più imprese del settore dello sviluppo software Open Source. Si tratta di trattenere i diritti di alcune componenti, mentre i diritti di altri vengono rilasciati su licenze Open. Questo modello permette di ottenere il beneficio di un framework Open Source, ottimale per lo sviluppo, nonché quello di avere delle licenze che possono proteggere alcuni vantaggi strategici dell’impresa.
  4. Multi licensing: senza addentrarsi nei dettagli, questo modello tipicamente prevede la presenza di due o più licenze. Solitamente una licenza è comparabile a quelle del software proprietario, mentre la seconda è (generalmente) una licenza GPL. Questo modello si sostanzia, nella maggior parte dei casi, nella distribuzione di una versione base a costo zero o ad un costo limitato, mentre prevede il pagamento di una licenza nel caso il cliente richieda di integrare il software (nella sua versione completa) nella propria azienda. Come detto prima si tratta di un modello molto delicato, perché le tematiche riguardanti le licenze sono spesso ambigue e difficili da interpretare. Nonostante tutto, questo modello ha fatto la fortuna di svariate aziende, tra le quali Oracle, Asterisk e MySQL, solo per citarne alcune.
  5. Sponsorizzazione: questo modello è la principale fonte di introiti di Mozilla, grazie agli accordi con Google che prevedono l’utilizzo dello stesso come motore di ricerca predefinito del browser. Il rischio di questo modello di business è che, perduto l’appoggio dello sponsor, l’azienda possa trovarsi in pericolo. La perdita dei fondi derivanti dallo sponsor può determinare un cambio forzato e repentino delle strategie aziendali, potenzialmente fatale. Questo approccio è anche alla base di progetti come Ubuntu e Fedora, anche se si tratta di casi significativamente diversi da quello di Mozilla.
  6. Fondazione: questo approccio prevede di costituire una fondazione senza fini di lucro. In questo modo, la mission aziendale assume un alto valore simbolico. Il progetto e la comunità legati alla fondazione dipendono dal contributo di molteplici sponsor, nonchè, nella maggior parte dei casi, da donazioni. Negli ultimi anni le fondazioni hanno fatto in modo di innovare questo sistema, con l’obiettivo di ottenere donazioni più consistenti o durature nel tempo. L’esempio principale è quello della Linux Foundation.
  7. Donazioni: si tratta del modello classico, grazie al quale ancora molti piccoli progetti sperimentali vengono portati avanti. Nonostante sia il modello di più vecchia data, non mancano le innovazioni. Recentemente è nato un nuovo approccio a riguardo, portato alla ribalta dello sviluppatore di “Linux Tycoon”. Quest’ultimo infatti aveva promesso la pubblicazione del codice sorgente del gioco al raggiungimento di una donazione stabile di 4000 dollari mensili da parte della comunità che segue il progetto.
  8. Vendita di accessori: il modello prevede che l’azienda metta in vendita vari gadget – portachiavi, t-shirt, suppellettili – che andranno a sostenere il progetto Open Source. Si tratta di una tattica interessante, perché tende a fornire un immediato “premio” a chi ha contribuito con una donazione (sottoforma di acquisto). Non trascurabile è anche il significato simbolico che gli accessori possono ricoprire in alcune subculture. Ancora una volta Mozilla può essere citata come esempio per questa tipologia di approccio, ma non è raro incontrarlo anche nell’universo delle distribuzioni di Linux.
  9. Money from the cloud: il software è localizzato in cloud e l’azienda viene remunerata per la fornitura di questo servizio. Si tratta di un modello che ha fatto la fortuna di alcuni software CRM ed ERP Open Source, come SugarCRM e vTiger CRM.

Studiando questi diversi approcci si può capire come il ricorso ad un modello non escluda l’utilizzo di altri. Come si può notare infatti, Mozilla, come altre realtà che adottano una filosofia Open, integra vari modelli come diverse fonti di revenue.

Questa classificazione è solamente un riassunto dei principali modelli di business attualmente sfruttati da soggetti che portano avanti progetti “Open Source”. L’innovazione, anche in questo campo, è in continua evoluzione.

Se ritenete che vi siano altri modelli oltre a quelli che ho citato, scrivete pure 😉

A presto,

Massimiliano

La imminente pubblicazione online del codice sorgente di Linux Tycoon è una notizia che è stata timidamente ripresa solo da alcuni blog e testate (soprattutto in Italia), ma che – a mio avviso – potrebbe aprire le porte a modelli di business inediti e a nuovi scenari nel panorama del Crowd funding.

Linux Tycoon non è altro che un gioco per computer, in cui il giocatore, trovandosi a capo di una delle numerose distribuzioni di Linux, ha come obiettivo di scalare la classifica e rendere la propria distribuzione “la più usata di sempre”.

Lo sviluppatore del gioco (compatibile con MacOs X, Windows e Linux), dopo averlo reso disponibile gratuitamente, ha lanciato la sfida: avrebbe messo a disposizione il codice sorgente di Linux Tycoon se avesse raggiunto una donazione continuativa di 4000 dollari su base mensile. La scommessa è stata lanciata da “Lunduke”, il creatore del gioco, perché, secondo lui “non sono molti i casi in cui uno sviluppatore di software Open raggiunge donazioni sufficienti a portare avanti il proprio lavoro”. Serviva un modello nuovo, un modello che potesse rendere sostenibile il pieno commitment di un programmatore allo sviluppo di un software Open Source.

La ragione della sfida di Lunduke era inoltre quella di “dimostrare che è possibile diventare professionisti dell’Open Source, creando un modello che sia sostenibile”. Il raggiungimento dell’obiettivo dello sviluppatore è stato ottenuto grazie ad un sistema relativamente innovativo, in cui Lunduke, invece di incentivare donazioni casuali, ha incoraggiato gli utenti ad effettuare donazioni continuative, partendo da un minimo di due dollari al mese. Come nelle piattaforme di Crowd funding, inoltre, Lunduke avrebbe rimborsato tutti i donatori se non avesse raggiunto l’obiettivo minimo di 4000 dollari su base mensile.
Il tam tam sui circuiti legati al mondo dello sviluppo software e di Linux, dovuto alla novità dell’iniziativa, ha reso possibile il raggiungimento di una buona notorietà del progetto tra le nicchie di interessati, che hanno presto sostenuto finanziariamente la sfida di Linux Tycoon. Le donazioni ottenute verranno utilizzate per coprire i costi del progetto, remunerare il lavoro dello sviluppatore e per far crescere la comunità di programmatori e la qualità del gioco.

Il modello creato da Lunduke non solo ha dimostrato che diventare professionisti dell’Open Source è possibile, ma ha anche aperto affascinanti interrogativi:

  • Grazie ad una buona strategia sarà possibile “saltare” l’utilizzo delle piattaforme di Crowd funding come Kickstarter e rivolgersi in maniera efficace e diretta al proprio target, senza bisogno di intermediari?
  • La crescente informatizzazione, il fiorire dell’iniziativa di tanti programmatori indipendenti e il sempre più facile accesso a forme creative di finanziamento sono destinate a rubare la scena alle grandi software-house?

Per ora, Linux Tycoon è solo un gioco non particolarmente complesso, con molti bug e privo di qualsiasi effetto grafico. Si può dire, pertanto, che la sua fama sia dovuta più alla scommessa del suo autore e al suo approccio innovativo più che alla qualità del gioco. Questo però dimostra nuovamente quanto, a volte, il valore derivante dalla partecipazione ad una comunità di creazione sia (almeno per un numero sufficientemente rilevante di soggetti) maggiore di quello derivante dall’utilizzo del prodotto stesso.
Nonostante questa piccola rivoluzione sia avvenuta in sordina, l’adozione di questo approccio innovativo forse aprirà la strada a nuovi scenari e modelli di business. Per queste motivazioni credo che Linux Tycoon, così come il suo creatore, possano considerarsi veri e propri pionieri.

Se siete curiosi di provare il gioco, questo è il link: http://lunduke.com/?page_id=2646

A presto,

Massimiliano

Sul Web si legge sempre più spesso di case histories in cui Crowdsourcing o Open Source hanno contribuito al successo di un’azienda, di un brand o di un prodotto. Ancora poco pubblicizzati, però, sono i rischi connessi all’utilizzo di questi approcci all’innovazione: in particolare, per scrivere questo post ho tratto ispirazione dall’articolo “Tom Tom: Rischioso fidarsi delle mappe Open Source”. Nel pezzo – che come potrete immaginare ha subito sollevato ampie polemiche – si riporta una comunicazione in cui Tom Tom avvisa la clientela di non porre troppo affidamento alle mappe Open Source, perché potrebbero essere errate o non adeguatamente aggiornate.

Nonostante molti sostenitori della “Open Source Way” siano subito insorti, Tom Tom ha sollevato uno dei problemi che – a ragion veduta – rendono ancora insidioso l’utilizzo, da parte delle aziende, di meccanismi che richiedano un’ampia partecipazione da parte delle cosiddette “intelligenze collettive”.

Ecco quindi una breve lista dei punti chiave da tenere sempre presenti per qualsiasi organizzazione che voglia sfruttare in maniera proficua i meccanismi di innovazione e creazione collaborativa:

  1. Controllo: Open Source e Crowdsourcing non significano anarchia. Nonostante spesso si richieda alla massa una democratica partecipazione ad alcune decisioni, l’azienda dovrebbe mantenere un certo controllo, per evitare un indesiderato “effetto boomerang”. Le collettività chiamate a partecipare potrebbero prendere decisioni poco lungimiranti o addirittura dannose per l’azienda, contrarie ad alcune scelte strategiche o alla visione del management. Oppure, una decisione o una richiesta da parte della comunità potrebbe essere non cattiva di per sè, ma comunque cogliere impreparata l’impresa. Un’apertura all’esterno potrebbe anche rivelarsi un’ottima occasione per i competitor per cogliere dei punti deboli, o addirittura danneggiare direttamente l’azienda.
  2. Expertise:qualora si decidesse di intraprendere un progetto che preveda il contributo di risorse esterne all’impresa, si deve sempre tenere presente il grado di expertise richiesto alle risorse stesse. Essere “Open” non significa accettare passivamente il contributo di tutti, ma anche e soprattutto saper selezionare o premiare “i talenti” e i contributi di qualità. Un buon bilancio tra “diversità ed expertise” è necessario per non rischiare che la situazione possa sfuggire di mano, o che l’azienda sprechi tempo e risorse a ricevere e considerare contributi inutili o di scarsa qualità. La necessità di selezionare soggetti con un’alta expertise è stata la scintilla che ha creato i cosiddetti Crowdsourcing di nicchia, ovvero il Curated Crowdsourcing e l’Expert Crowdsourcing.
  3. Incentivi:questo rappresenta, a mio avviso, un punto focale. I partecipanti ad un progetto di creazione o innovazione aperta devono essere adeguatamente incentivati. Nulla è più frustrante, per una persona che partecipa attivamente ad un progetto, del sentirsi sfruttata o non valorizzata. Molto spesso, i benefici psicologici derivanti dall’appartenenza ad una comunità di creazione, dove i partecipanti possono condividere le proprie passioni ed i propri interessi non sono sufficienti, o per lo meno perdono di efficacia con l’andare del tempo. Ancora poche sono le realtà che riconoscono dei veri benefici economici a coloro che danno il proprio contributo. Gli incentivi devono generare quindi un giusto mix di benefici psicologici e sociali, sostenuti (ove la situazione lo renda opportuno) da benefici di carattere economico. Condizione fondamentale è però che essi siano costanti nel tempo. Un sistema incentivante ben strutturato deve trattenere i “migliori talenti”, farli crescere e, qualora necessario, attrarre nuove partecipazioni.
  4. Regole: un equo set di regole, soprattutto se condiviso dalla comunità di co-creatori o partecipanti è necessario a mantenere l’ordine. Le regole non devono però essere nè troppo stringenti nè troppo permissive. Nel primo caso si rischia di soffocare la creatività dei partecipanti, mentre nel secondo di trasformare i progetti in anarchia.

Lo sfruttamento e la corretta gestione delle “intelligenze collettive” è un argomento molto più delicato di quanto non appaia. Il difficile compito è sempre più delegato ai cosiddetti “Community Managers”, figure professionali che stanno ricoprendo un ruolo sempre più importante nelle moderne strategie di marketing. Qualora si voglia approfondire l’argomento, raccomando l’articolo “Community Manager: ruoli e responsabilità” comparso recentemente su ninjamarketing.

Quanto sia difficile gestire delle comunità è dimostrato dalla “guerra” tra due sistemi operativi Linux-based, ovvero Ubuntu e Linux Mint (una distribuzione derivata proprio dalla stessa Ubuntu). I creatori di Linux Mint hanno avuto strada facile nell’accrescere la propria popolarità grazie ad un attenzione ed un ascolto più attento delle volontà e dei desideri degli utenti. Mentre Ubuntu deve sottostare a troppe regole, derivanti dal fatto che è “sponsorizzata” da Canonical, Mint ha intercettato quella grande fetta di Ubuntu-users che chiedeva a gran voce una distribuzione facile e stabile come Ubuntu, ma che potesse evolvere secondo le loro necessità e non secondo le imposizioni di un’impresa.

Pur essendo Ubuntu una distribuzione che “vive” dei contributi della comunità, Canonical, l’azienda che sostiene Ubuntu, ha dovuto compiere alcune scelte di carattere strategico, per permettere un futuro supporto anche su tablet, televisioni e dispositivi mobili. Una di queste scelte è stata l’adozione dell’interfaccia Unity, criticatissima da molti utenti. Nonostante queste decisioni siano chiaramente lungimiranti, Ubuntu si è trovata proprio nella situazione in cui la linea strategica del management non era condivisa da una larga fetta degli utenti. L’incapacità di parte della comunità di comprendere l’importanza della scelta di Canonical ha causato la veloce ascesa del primo concorrente di Ubuntu, ovvero Linux Mint. Se desiderate comprendere meglio come questa “guerra” sia iniziata, vi consiglio di leggere l’articolo “Linux Mint, the new Ubuntu“.

Con questo articolo spero di aver sintetizzato ed esemplificato brevemente le maggiori criticità che l’adozione di approcci di creazione ed innovazione collaborativa possono presentare.

Ritenete che vi siano altri importanti punti da tenere presente prima di intraprendere un progetto che coinvolge risorse esterne all’impresa?

Aspetto i vostri commenti!

A presto,

Massimiliano

Ha da poco preso il via “Project Sputnik”, un progetto pilota basato sull’ultrabook Dell XPS13, lanciato per esplorare la possibilità di creare un laptop con tutte le caratteristiche tecniche, la flessibilità e i pacchetti software necessari al segmento degli sviluppatori.

Project Sputnik è portato avanti da Dell tramite la sua piattaforma di crowdsourcing – IdeaStorm – ed in sinergia con Canonical (lo sponsor di Ubuntu). Nello specifico, Canonical e Dell stanno collaborando per ottenere un perfetto supporto dell’harware da parte di Ubuntu, il sistema operativo prescelto per il progetto.

L’idea è quella di dare la parola agli sviluppatori per comprendere al meglio quali sono le loro necessità e i loro desideri, con il fine di creare una macchina che, a detta dei responsabili del progetto: “avrà tutto quello che uno sviluppatore vuole e nulla di quello che non vuole”.

L’idea di “Project Sputnik” arriva da Barton George, appassionato di Open Source e direttore marketing di Dell. Dopo aver presentato il proprio progetto a Mark Shuttelworth (Chairman di Canonical), i due hanno subito intuito che le potenzialità, per questo tipo di prodotto andavano ben oltre le intenzioni iniziali. L’obiettivo è quello di creare una piattaforma per lo sviluppo che sia flessibile e che stia al passo con tutte le mutevoli esigenze del mondo dei developer. Da qui la necessità di raccogliere tutte le idee grazie alle “Storm Sessions” su IdeaStorm.

Se desiderate andare più in profondità, vi consiglio di guardare l’intervista a George, che spiega brevemente la filosofia di “Project Sputnik”.

L’iniziativa si inserisce in un insieme di progetti intrapresi da Dell negli ultimi anni, volti ad aprire l’azienda alle idee degli utenti (potenziali ed effettivi) e a gestire meglio le relazioni con questi ultimi. Proprio nel campo del CRM Dell ha recentemente posato una pietra miliare, con lo sviluppo del Social Media Command Center, una sezione dell’azienda dedicata esclusivamente al monitoraggio delle discussioni, dei riferimenti e delle opinioni riguardo all’azienda e al brand.

Nonostante “Project Sputnik” sia soltanto un progetto pilota, ben si inserisce in questa logica di “monitaraggio e coinvolgimento” degli utenti. Sottolineo inoltre che IdeaStorm, la piattaforma di crowdsourcing tramite la quale Dell raccoglie le idee dal popolo del Web, ha ottenuto un discreto successo da quando è stata lanciata nel 2007. Fino ad ora l’azienda ha raccolto più di 17 mila idee e ne ha realizzate circa 500.

Una completa inversione di tendenza da parte di Dell, che in un passato non troppo lontano era tristemente nota proprio per la cattiva gestione delle relazioni con i propri clienti.

Se desiderate ulteriori informazioni, vi consiglio di tenere monitorato il blog di Barton George, dove potrete seguire gli sviluppi del progetto.

A presto,

Massimiliano